Zaratino quattro quarti
Figlio di esuli entrambi zaratini racconto, in questo Giorno del ricordo 2016, la mia “prima volta a Zara” e, rivivendo le emozioni di quel viaggio, ricordo gli echi della mia “infanzia zaratina in esilio”, e provo a descrivere che cosa rappresenti per me questa identità.
Novembre 2013, settant’anni esatti dal primo bombardamento. Sono su un pullman e mi sto accingendo a visitare Zara per la prima volta. Accanto a me siedono mamma e papà, entrambi zaratini, a cui ho chiesto di farmi da guida in questo viaggio nella terra delle mie origini. Un viaggio che desideravo da anni e che per molte ragioni non ero ancora riuscito a concretizzare; sono molto emozionato! I nostri compagni di viaggio sono tutti esuli giuliano-dalmati; si stanno recando, come ogni anno, a visitare le tombe lasciate in terra di Dalmazia, grazie all’opera del Madrinato che organizza questo pietoso pellegrinaggio. Quasi tutti molto anziani, sono felici della mia curiosità, mi adottano subito e non perdono occasione per raccontarmi episodi di storia zaratina e vicende personali, con i ricordi vivi e intensi come se solo ieri avessero abbandonato la loro terra, la loro casa, la loro vita…
Capisco bene la nostalgia! L’ho vissuta per molti anni, a casa, sin dalla prima infanzia quando, in occasione di tutti i raduni di parenti, coglievo ricorrente il nome di Zara, legato ad un insieme di notizie, di riferimenti e di impressioni, ripetutamente evocato nei discorsi dei “grandi”: genitori, zii, nonni, amici. Bastava infatti il pranzo domenicale con la nonna e qualche zia perché si scatenasse il «ti te ricordi, quando jerimo a Zara?» e… via, con l’elenco del cuore, a ricordare tutti quei nomi che da sempre risuonano familiari alle mie orecchie.
Avevo così già virtualmente visto e conosciuto: la Cale Larga, la Riva Nova, la Zerarìa, la Canottieri Diadora, le Mura, il Parco Regina Elena, le escursioni in barca ai scoi, l’agnelo rosto a Belafusa e il porzeleto a Bocagnazo, le paste del Battara, i bagni a Puntamica e poi «Do basi a chi trova parola più bela», le fritole de la vigilia, le fanfarigole e i «fighi co la joza che più boni no se trova in tuto el mondo». Insomma tutte quelle cose per cui era lecito cantare che “Tuto xè a Zara belo, tuto xè grazia e amor: la tera, el mar, el zielo, ma spezialmente el cor”, rafforzando la convinzione che questa città fosse un luogo di delizie da Mille e una notte, un Eden, un paradiso perduto che non si poteva non amare. E così, da sempre, dinnanzi ai miei occhi curiosi e meravigliati di bimbo, sono sfilate le visioni derivate da avvenimenti, storie liete o tristi, comiche o tragiche, assimilate come realtà e fantasia dal mio desiderio di conoscenza e approfondimento. Da sempre, infine, ho udito le esaltazioni di bellezza ambientale, di bontà climatica, di raffinata gastronomia, di sodalità amicale, di elevatezza di sentimenti che contraddistinguevano questa città e i suoi abitanti, il tutto riccamente commentato, a volte con bonaria, scanzonata allegria, altre con nostalgica, accorata mestizia.
Ma oggi è diverso; oggi sono qui, a toccare con mano la città dei miei antenati, che non ho mai visitato prima, ma che conosco già. E la trovo bella, ugualmente bella, nonostante tutti mi dicano che una volta «la jera più bela ancora». Ne inspiro i profumi, ne ascolto i silenzi delle calli e provo ad immaginarmi come sia stato viverla allora, italiana, un po’ nobile e un po’ commerciante, «co i muli che zigava in strada» e «le babe che ciacolava sui cantoni» …
Il mio “Viaggio di Ulisse”, nelle vesti di un dalmata di seconda generazione, mi sta dimostrando che Zara è veramente una gran bella città, immersa com’è in una natura meravigliosa, contornata da stupendi dintorni, e non mi è difficile credere che, nel passato, lo sia stata ancor di più agli occhi dei suoi figli, specialmente prima della distruzione del patrimonio artistico che la contraddistingueva. Comprendo più a fondo quali debbano esser state le tristi emozioni nelle tragiche vicissitudini della guerra e dell’esodo e dentro di me giustifico quelle care piccole-grandi esagerazioni nel descrivere tali bellezze, dettate dal grande amore per il luogo natio, irrimediabilmente perduto.
Son zaratin, de sangue; zaratino “quattro quarti”, come non manca di ricordarmi il cugino Gianni, uno degli esuli più giovani (in quanto concepito a Zara, ma nato in penisola). A due anni dal traguardo del mezzo secolo, capisco anche di essere una rarità (comunque mi battono i miei due fratelli minori). Un gioco del destino, che ha fatto incontrare i miei genitori, fuggiti da Zara ancora bambini e esuli a 400 chilometri di distanza l’uno dall’altra, a un raduno veronese, complici inconsapevoli alcuni parenti (l’intera storia è qui).
Nato e cresciuto a Verona, non mi sento, oggi, meno veronese dei miei concittadini: vivo profondamente la mia città e ne conosco storia e tradizioni; ho imparato il dialetto (pur con qualche difficoltà e presa in giro, quando ad esempio confondevo “te sì” con “ti xè” o “come steto?” con “come ti sta?”) e partecipo alla vita cittadina, interessandomi al dibattito sociale e politico. Ma non dimentico, il mio sangue “centopercento” non me lo permette, di essere di ascendenti zaratini. La mia origine è parte fondante della mia memoria di ragazzino, ieri; e la mia storia costruisce la mia identità di adulto, oggi. Riesco quindi a percepire con piena partecipazione le esperienze dolorose dei miei nonni e bisnonni, la forza e l’amore per la loro terra, la terribile e struggente nostalgia per la perdita di una parte importante di sé che li ha accompagnati per tutta la vita dal dopoguerra.
E racconto la storia della mia famiglia, convinto che solo attraverso la conoscenza del passato, oggi, sarà possibile costruire il domani di un mondo migliore, per i nostri figli e le generazioni a venire.
Luciano Lorini
(pubblicato su Il Dalmata 91 – aprile 2016)
E bravo Luciano! Ma Il Dalmata, dove lo trovo? Un saluto a tutti voi.
Ciao Marco,
ho aggiunto il link alla pagina dove sono disponibili tutti i numeri in pdf della rivista.
Il mio contributo sarà pubblicato sul numero di maggio 2016. Buona vita.
Hai atteso un tantino prima di vergare queste toccanti reminiscenze…
Ero con te e con i tuoi, sull’autobus che, in quel novembre 2013, riportava un manipolo di noi nell’ “alma terra natia”. E ci siamo rifocillati insieme, durante la breve sosta a Trieste, presso un ristorantino di poche pretese.
Io torno a Zara ogni estate. La trascorro, tutta, di là, nel cortile che mi ha visto crescere, tra i “fighi con la joza” e “i amoli e le braide”, tra masiere in cui “go spelado i ginoci”, da mulo, sa Iddio quante volte.
Ogni mattina mi ritrovo in Piazza dei Signori, a sorbire la tazzina di caffé coi pochi, pochissimi Zaratini autoctoni, rimasti. E, dillo alla mamma, si nomina spesso, ancora!, la bottega del Santucci…
Caro Walter, è vero, sono uno dai tempi lunghi.
E se non fosse stato per il cugino Gianni (ma pure per il papà), che a lungo mi ha punzecchiato per ottenere il “pezzo” da pubblicare, probabilmente questo sarebbe ancora nella mia testa, nel mio cuore, in attesa di scrittura, nonostante desiderassi condividere queste emozioni sin dal momento del mio ritorno a casa, dopo il viaggio.
Non è pigrizia; ma i giorni scivolano via veloci, sempre pieni di mille cose…
Sono passati solo due anni: ho ancora molto vivido il ricordo della tua persona, dal pranzo a Trieste ai vari racconti in pullman e a Zara. Sei stato certamente uno dei testimoni più significativi di questo mio viaggio anche se per questo non ti ho mai ringraziato (ma lo faccio ora: grazie!). Grazie anche per la simpatica testimonianza che hai lasciato nel commento, perfettamente in linea con i racconti domenicali dei miei parenti :). E grazie, infine, per il ricordo del (bis)nonno Ernesto e della sua bottega, ricordo che ho tramesso alla mamma e che le ha fatto tanto piacere.
Al prossimo incontro. Buona vita!
Grazie Luciano per aver messo il link su FB a questo tuo pezzo: coinvolgente, chiaro e significativo!
Un caro abbraccio a te e ai tuoi.