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Il prezzo della divisione [elezioni]

di Concita De Gregorio (direttrice de “l’Unità”)
da l’Unità (08 giugno 2009 – Editoriale “Filo rosso”)

L’Europa vira a destra e non vota. Mai un’affluenza alle urne così bassa. In Italia meglio che altrove, tuttavia: sei su dieci. Poco più della metà degli italiani. E gli altri, l’altra metà? Basta, hanno esaurito il credito. Disamorati, disillusi, esausti. Stanchi di parole. Impoveriti e ingannati dall’illusione piccola così di poter vivere chiudendo le porte di casa, di guardare dentro e non più fuori, di pensare a campare e vadano tutti in malora tanto per mecosa cambia. La democrazia è un lusso, questo ci dice per prima cosa il voto di ieri. È un bene prezioso che prospera dove non mancano pane, lavoro, sicurezza, casa. In assenza dei beni essenziali, in presenza di rabbia diffusa e di colossale stanchezza la democrazia diventa bene superfluo. Che se ne occupino gli altri, quelli che hanno tempo da perdere quegli stolti che ci credono ancora. Ecco il pericolo vero. Impoverire un paese, poi ingannarlo, poi piegarlo, poi ipnotizzarlo infine zittirlo fino a che non tace da solo. Fa silenzio, la metà del paese. È la prima sconfitta della politica.

La seconda lezione viene dall’altra metà, quelli che hanno votato. La cautela dei dati provvisori impone prudenza ma è chiaro che crescono nei due schieramenti i partiti della «rabbia sociale»: il localismo xenofobo della Lega e il richiamo alla giustizia e alla legalità dell’Italia dei Valori. Due forme molto distinte e distanti di appello alle viscere dell’elettorato, agli umori facili da sollecitare e difficili, poi, da governare nella politica costretta alle alleanze. Demagogia, populismo dirà qualcuno. Nel rispetto di chi si riconosce nelle posizioni di Bossi e nella comunanza di valori con chi ha votato Di Pietro – moltissimi elettori di sinistra delusi dal resto dei partiti – si deve però osservare come il consenso raccolto dalle due ali «radicali» degli schieramenti sia un consenso di reazione e per così dire prepolitico, o meglio post-politico. Vedremo i flussi, ma è sensato pensare che molti degli elettori della Lega vengano dai delusi da Berlusconi e dagli orfani di Fini, sparito dalle schede, oltreché da una classe media e operaia spaventata dal fluttuare evanescente di quella che al Nord fu la sinistra. Gli elettori di Di Pietro sono certo antiberlusconiani in fuga dal compromesso, opposizione drastica non rappresentata dalla sinistra della moderazione e non sempre, comunque, opposizione di sinistra in origine. La crescita di Lega e Idv parlano di un disagio nuovo in quel che resta del vecchio elettorato: un difetto di rappresentanza nelle case d’origine. La sinistra a sinistra del Pd paga il prezzo delle divisioni, un costo salatissimo e si spera ultimo pegno alla logica dei distinguo tra chi sia più puro. Divisi si perde.

Infine, le considerazioni principali:Berlusconi e Fini ballano molto al di sotto del 40 sperato, forse sotto il 35, una sconfitta vistosa. Il Pd di Franceschini regge sopra il 26, assai più di quel che i profeti di sventura, dentro e fuori dal partito, si auguravano per calcoli meschini. È una bella speranza di crescita per un neonato dato per spacciato. Il cammino ora riparte da qui: verso quelli che se ne sono andati. Il Centro viaggia da solo. Quel che bisogna ritrovare a sinistra è l’unità. Poi ci sono i quattro su dieci che non hanno votato. La partita della democrazia si gioca a casa loro.

Luciano

Veronese, classe 1967. Informatico di professione, coltiva mille passioni con cui impiega il sempre troppo poco tempo libero: musica, lettura, cinema e teatro, oltre a computer e bicicletta. Cittadino attento e sensibile, si interessa alla vita sociale e politica e pedala per la città perché crede nella bici come viatico per un maggior benessere, individuale e collettivo.

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