Lista visioni cinematografiche di Luciano


 
 La città dolente (La città dolente)

 
pic_movie_677   NUM   677  
  DATA E CINEMA   2008.02.12 GRANGUARDIA  
  RASSEGNA    
 
     
  REGISTA   Mario Bonnard  
  ATTORI   Sceneggiature: Mario Bonnard, Federico Fellini, A.Giulio Majano  
  PRODUTTORE    
  SCENEGGIATORE    
  COMPOSITORE    
  PAESE   Italia  
  CATEGORIA   Storico  
  ANNO   1949  
  DURATA   minuti  
  LINGUA    
  SOTTOTITOLI    
  URL    
 
 
 

DESCRIZIONE   Il film è tradotto da una storia vera e si svolge a Pola dopo il Trattato di Parigi che assegna le nostre terre alla Jugoslavia. La popolazione, in massa, lascia la città mentre gli emissari jugoslavi cercano di trattenere, con le lusinghe, quanti più cittadini possibile.
Berto, giovane operaio, cade nella rete e da qui nascono le disillusioni politiche, le blande critiche al regime che lo porteranno in prigione. Riuscirà a fuggire e tenterà di riunirsi alla moglie, già in salvo a Trieste...
 

COMMENTO   Il confine orientale nel cinema del Novecento
Un saggio di Alessandro Cuk esamina una produzione quasi dimenticata


Quasi nessuno ricorda più – salvi, forse, i cinéphiles – la cospicua produzione cinematografica che nel secondo dopoguerra documentò e trasferì nelle sceneggiature il dramma della Venezia Giulia ceduta alla Jugoslavia di Tito. Una produzione che pure enumerò
collaborazioni importanti, come quelle di Federico Fellini per la regìa, di Vitaliano Brancati e Anton Giulio Majano per la sceneggiatura, di Tonino Delli Colli per la fotografia, di Raf Vallone, Alida Valli e Gina Lollobrigida in qualità di attori. E solo per citare qualche nome.

Il saggio di Alessandro Cuk, critico cinematografico attento e sensibile, appena edito con il titolo Il cinema di frontiera. Il confine orientale per i tipi di Alcione editore con il contributo della L. 193/04, colma in maniera organica un vuoto, che evidentemente non è stato soltanto storiografico.
«Queste tematiche – nota Cuk nella presentazione al volume – sono rimaste circoscritte nei cinegiornali dell’immediato
dopoguerra, nei numerosi documentari realizzati in quel periodo».

Eppure, a sfogliare questo volume si incontrano personalità di grande rilievo; ma i temi tratttati nei film non trovarono un pubblico molto sensibile nell’Italia di allora e patirono una circolazione ridotta.
Merito dunque di Cuk, che è anche consigliere nazionale dell’ANVGD, aver recuperato storie, sceneggiature, interpreti e colonne sonore di produzioni anche pressoché sconosciute.
Un’operazione, per così dire, di archeologia cinematografica che conferma l’importanza della «settima arte» nella conservazione e nella trasmissione della memoria, quando era ancora in grado di contenere e di trasmettere qualcosa.
Dal capitolo dedicato al film La città dolente di Mario Bonnard pubblichiamo un significativo estratto.
p.c.h.
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La città dolente

«La città dolente» di Mario Bonnard forse rimane il film più emblematico, per certi versi più significativo ed esemplificativo sul tema delle questione giuliana, con l’esodo in primissimo piano.
Si tratta quasi di una sorta di instantmovie, perché realizzato quasi contemporaneamente agli avvenimenti di cui tratta. Un’opera imparentata con il neorealismo, dove si mettono insieme immagini documentaristiche del dramma dell’esodo con il racconto di una storia familiare che diventa un punto di riferimento all’interno dell’affresco storico generale.
Il film venne girato da Bonnard tra il 1947 e il 1948, quindi a ridosso dell’esodo da Pola, il tema principale del film, ma uscì solo un anno dopo, nel 1949.
Un film particolare, anomalo, dove il melodramma si mescola alla ricostruzione storica, che rimase bloccato per un anno e uscì nelle sale cinematografiche il 4 marzo de11949, ma passò quasi inosservato e finì presto dimenticato, seguendo in questo la sorte degli esuli italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, il cui dramma venne volutamente messo da parte e cancellato dalla memoria, per motivi di opportunità politica nazionale e internazionale.

Gli sceneggiatori

Un film singolare quindi, come è atipica la commistione di sceneggiatori. Assieme a Bonnard, ci sono Federico Fellini, Aldo De Benedetti e Anton Giulio Majano. Tre nomi di grande livello, due in prospettiva futura, Fellini nel cinema e Majano nella televisione, e uno come De Benedetti, già importante come autore teatrale, ma che torna a collaborare a qualche progetto dopo l’ostracismo che gli era stato imposto
dal fascismo perché era ebreo.
I quattro autori della sceneggiatura però sono apparentemente lontani dalle problematiche giuliane, anche per le loro radici di appartenenza, Bonnard e De Benedetti sono romani, Fellini è romagnolo e Majano abruzzese e anche questa è una stranezza.
Federico Fellini è stato uno dei più grandi registi italiani, però in quel periodo doveva ancora esordire sul grande schermo nella regia e collaborava a numerosi film. [...]
Nel dopoguerra Fellini intensifica il suo lavoro di sceneggiatore e firma, tra gli altri, «Paisà» di Roberto Rossellini e «Senza pietà» di Alberto Lattuada. [...] La partecipazione di Fellini al film è quindi dovuta soprattutto ad un fattore “economico”, alla necessità di lavorare
e in parte anche alla precedente collaborazione con Bonnard, ma in quel periodo Fellini era un giovane in ascesa, molto creativo, dal sicuro avvenire, anche se la carriera registica comincerà tre anni più tardi nella coregia, in coppia con Alberto Lattuada, di «Luci del varietà».

Aldo De Benedetti, romano, è soprattutto autore di teatro [...]. Contemporaneamente all’attività teatrale, De Benedetti si dedica anche al cinema, scrivendo numerosi soggetti, sceneggiature e riduzioni da proprie commedie. Tra i film è da citare «Gli uomini che mascalzoni» di Mario Camerini. Ormai De Benedetti è conosciuto e apprezzato in Italia e all’estero, ma nel 1938, a seguito delle leggi razziali antisemite, l’autore viene costretto al silenzio. Obbligato all’inattività in campo teatrale, continua a lavorare al cinema grazie all’aiuto di registi come
Blasetti, Camerini, De Sica, ma senza che la sua firma possa comparire. [...] Al cinema torna proprio con «La città dolente» e qui racconta un altro dramma conseguente alla guerra, l’esodo da Pola, lui che era sfuggito alla persecuzione ebraica e aveva vissuto l’ostracismo per la sua attività culturale e creativa. [...]

Anton Giulio Majano, nato a Chieti, è stato giornalista, scrittore, sceneggiatore cinematografico per affermarsi successivamente come regista radiofonico e soprattutto televisivo di grande successo. [...] Dal 1939 fa lo sceneggiatore e scrive, fra gli altri, i famosi «Noi
vivi» e «Addio Kyra!» di Goffredo Alessandrini con una splendida Alida Valli. [...]

Mario Bonnard, nato a Roma, è attore, regista, sceneggiatore. [...] Negli anni della guerra gira due opere dotate di freschezza come «Avanti c’è posto» su soggetto di Aldo Fabrizi e Cesare Zavattini e «Campo de’ Fiori», con protagonisti Fabrizi e Anna Magnani.
Nel 1948 è sceneggiatore e regista di «La città dolente», film che passa praticamente inosservato. [...]

L’analisi del film

Il film parte con una didascalia che dice «da una storia vera un film». [...] I titoli di testa scorrono con le immagini di un mare tempestoso accompagnate da una musica grave, a tinte fosche.
La scena iniziale è una panoramica su Pola, con una voce fuori campo che racconta «Questa è Pola, adagiata su sette colli a somiglianza di Roma, l’anfiteatro uno dei più grandiosi della latinità, costruito durante l’impero di Augusto, tutto in pietra d’Istria chiara e purissima. Tutto è tipicamente italiano, alle voci della latinità si uniscono i segni di Venezia. (...) Alle 11 del 10 febbraio 1947 a Parigi la fine di Pola era
suggelata. La stazione è senza vita, neppure un’ anima. La tragedia è nell’aria, lo sgombero è già cominciato, è un’intera città che muore». [...]

Il commento

È giusto quello che scrive il critico Sergio Grmek Germani «Sono molte più le domande che il film pone, delle risposte che offre».
Certo vedendolo a posteriori sembra incredibile che una tragedia italiana come l’esodo dalla Venezia Giulia sia stata trattata, quasi in tempo reale, in questo film del 1948 (con tutti i problemi della contemporaneità ad una vicenda così complessa) e poi non sia stata più rappresentata, abbandonata completamente dal mondo del cinema che pure ha trattato infinite volte il tema della seconda guerra mondiale
con tutte le sue conseguenze. Ma nemmeno nei film di carattere sociale o politico o storico nessuno ha avuto l’idea (o forse il coraggio?) di affrontare questo tema, che peraltro essendo piuttosto misconosciuto, avrebbe rappresentato una novità interessante. Il cinema
ha seguito l’andamento degli storici e dei politici, ha rispettato il silenzio di un argomento considerato tabù, e solo da poco sembra ritornare alla luce, sdoganato anche dalla legge sul Giorno del Ricordo del 2004.
E allora «La città dolente» è stato probabilmente un film eroico perché si è avvicinato ad un tema così delicato ed ha pagato subito con l’ostracismo ad una pellicola che è uscita in ritardo e che è stata vista pochissimo e non soltanto per colpa degli spettatori. Il film comunque ha tanti lati positivi, a partire da quell’idea brillante di combinare insieme immagini documentaristiche e immagini di scene ricostruite. Sono inserite nel film, montate nel succedersi del racconto, molte scene girate nei giorni reali dell’esodo da operatori di cinegiornali come Gian Alberto Vitrotti ed Enrico Moretti. Ci sono immagini che danno la cifra reale del dramma, come la dissepoltura delle casse da morto dai cimiteri per portare in Italia anche i resti dei propri cari, oppure le lunghe file di profughi che spingono mobili e materassi ammassati sui carretti di fortuna. Il momento migliore di questa commistione di immagini avviene al momento di una partenza del Toscana dal porto di Pola. Qui si mettono insieme inquadrature che ritraggono i volti «dolenti» dei veri profughi all’imbarco e alla partenza da Pola con i personaggi della storia, in un mix credibile e armonioso.
Bravissimo da questo punto di vista è stato anche il direttore della fotografia, l’allora venticinquenne Tonino Delli Colli (al suo ottavo film), quello che diventerà uno dei grandi direttori della fotografia del cinema italiano e non solo, lavorando con Pier Paolo Pasolini, Sergio Leone, Dino Risi, Mario Monicelli, Federico Fellini e che ha concluso la sua carriera con «La vita è bella» di Roberto Benigni. [...]
Anche la presenza di Constance Dowling è anomala in questo film, lei attrice newyorkese, che prima di allora aveva girato soltanto in America e fa il suo esordio nel cinema italiano proprio in questo film. Successivamente girerà altri cinque film in Italia, tra il 1949 e il
1950 [...]. Nel 1949 arriva in Italia anche sua sorella Doris che è una delle protagoniste di un film importante del cinema italiano «Riso amaro» di Giuseppe De Santis con Silvana Mangano. [...]

[...] Il film è quasi anticipatore, profeta in qualche senso della situazione futura che si andrà a creare in Jugoslavia in quel periodo. Nel 1948 avviene, infatti, la drastica rottura tra Tito e Stalin e gli italiani, soprattutto di Monfalcone, che erano andati in Jugoslavia in nome del comunismo si trovano spiazzati, senza protezioni in terra straniera, in balia di un sistema che ora li sospetta di spionaggio. Molti vengono rinchiusi in campi di lavoro, «per essere rieducati » e verranno liberati, un po’ alla volta, negli anni Cinquanta. [...]

La critica

Quando il film uscì la critica dell’Avanti, giornale del partito socialista, non fu certo molto tenera, infatti il 30 marzo 1949 così scrisse: «II dramma di Pola, l’esodo di quella popolazione, è argomento delicato; poteva offrire materiale al cinema qualora avesse trovato un regista d’ingegno. Ha trovato purtroppo un uomo per il quale il facchinaggio non dovrebbe avere misteri a giudicare dalla delicatezza, dagli
argomenti di cui si è servito per intonare un inno al nazionalismo più deteriore. La raccolta dei luoghi comuni e della retorica fascista (e degasperiana) è completa. Non manca nulla. E non mancano le falsità più indisponenti. Questo il contenuto. E la regia? Inesistente.
La pellicola è ferma, morta; puzza di cadavere. I tentativi qua e là di raggiungere una certa calligrafia sono traditi dagli errori di grammatica» [...].
Venendo ad un discorso più recente così si legge sul Morandini 2007 «il dramma appartiene ad un gruppo di film patriottici, quasi tutti mediocri, che nel dopoguerra toccarono temi scabrosi e difficili sui quali calarono le censure di parte e le rimozioni politiche della
sinistra» e poi cita il giudizio di Goffredo Fofi sul film «non ha ritmo, convinzione, tensione, la parte romana è pseudoneorealista e didascalico-cattolica e non ha il coraggio di nominare mai la parola tabù: comunisti».
Ora su una cosa si può essere d’ accordo, «La città dolente» non è un capolavoro, è un’opera che hai limiti sia formali che di sviluppo narrativo, ha qualche lentezza di troppo, ma è un film che, soprattutto visto nell’ottica attuale, ha una straordinaria valenza storica e di documentazione, oltre a rappresentare un prodotto unico come lungometraggio che parla dell’esodo.
Nel film ci sono spezzoni tratti dai cinegiornali dell’epoca e alcune scene appartengono a «Pola, una città che muore» di Vitrotti-Moretti, che si fondono positivamente con le altre riprese che sono state girate negli stabilimenti Scalera di Roma, anche in esterni.
Si diceva della splendida fotografia di Tonino Delli Colli, che si adegua perfettamente allo stile noir che il film assume a tratti; una fotografia fortemente contrastata dove prevalgono degli interni bui e anche claustrofobici.
Il film forse è più efficace nella prima parte, probabilmente più didascalica, rallentata e allo stesso impreziosita dagli inserti documentaristici, ma che riesce a fotografare con intensità tutta una serie di situazioni che sono emblematiche della realtà vissuta.
Nella prima parte l’esodo è documentato da tanti piccoli dettagli della storia che vengono poi “puntellati” dalle riprese “dal vero”, si riesce in qualche modo a respirare quell’atmosfera, il dramma di quei giorni, l’abbandono delle proprie case, della propria città, da parte della stragrande maggioranza della popolazione. [...]
Nella seconda parte il film si disunisce un po’ e poi tende anche a sfilacciarsi nel finale. [...] Il finale è indubbiamente frettoloso ed è preparato comunque da una fuga precedente forse eccessivamente dilatata e che fa perdere ritmo alla narrazione.
Solenne la colonna sonora di Giorgio Bonnard che sottolinea alcuni momenti particolari del film con l’utilizzo dei rispettivi patrimoni musicali italiani e slavi. Così mentre i polesi imbarcati sul Toscana intonano il nostalgico coro «O Signore dal tetto natio» tratto da «I Lombardi alla prima crociata» di Giuseppe Verdi, la festa da ballo degli occupanti viene commentata da musiche tradizionali slave ipsirate dai grandi
auotri russi. [...]
Da segnalare che il film uscì nel 1951 negli Stati Uniti con il titolo «City of Pain».

Alessandro Cuk

[da mailing list - messaggio "*Difesa Adriatica ott.07 Il confine orientale nel cinema del Novecento" - venerdì 05.10.2007 ore 00.30]