Lista visioni cinematografiche di Luciano


 
 Palazzina LAF (Palazzina LAF)

 
pic_movie_1746   NUM   1746  
  DATA E CINEMA   2024.01.24 ALCIONE  
  RASSEGNA    
 
     
  REGISTA   Michele Riondino  
  ATTORI   Michele Riondino, Elio Germano, Vanessa Scalera, Domenico Fortunato, Gianni D'Addario, Pierfrancesco Nacca, Michele Sinisi, Fulvio Pepe, Marina Limosani, Eva Cela, Anna Ferruzzo, Paolo Pierobon  
  PRODUTTORE   Palomar Bravo, BIM Distribuzione, RAI Cinema, Paprika films  
  SCENEGGIATORE   Michele Riondino, Maurizio Braucci  
  COMPOSITORE   Teho Teardo  
  PAESE   Italia  
  CATEGORIA   Drammatico  
  ANNO   2023  
  DURATA   99 minuti  
  LINGUA    
  SOTTOTITOLI    
  URL   https://www.comingsoon.it/film/palazzina-laf/63376/scheda/  
 
 
 

DESCRIZIONE   Palazzina Laf, il film diretto da Michele Riondino, racconta i fatti realmente accaduti che riguardano la Palazzina Laf, acronimo di "Laminatoio a freddo" e reparto dell'acciaieria ILVA di Taranto, dove venivano confinati e mobbizzati gli impiegati che si opponevano al declassamento. Non potendo licenziarli, li lasciavano a far nulla.

Siamo alla fine degli anni Novanta, precisamente nel 1997, e attraverso le storie grottesche dei protagonisti, viene messo in luce lo scandalo che fu al centro di un processo. La cosiddetta "novazione" del contratto, cioè la cancellazione del ruolo svolto fino a quel momento, sostituito sul contratto da una nuova posizione da operaio, che ha riguardato un gruppo di impiegati e magazzinieri che ribellandosi finirono piazzati nella Palazzina Laf. Pagati per non fare nulla, deprivati della dignità di lavoratori, si aggiravano per i corridoi, senza una scrivania o mansioni specifiche, in attesa che scadessero le otto ore d'ufficio. Nel novembre del 1998, un processo condannò in tutti i gradi di giudizio i responsabili e gli alti dirigenti dello stabilimento, liberando finalmente le vittime di questi soprusi.

Il film, nello specifico, racconta la storia di Caterino (Michele Riondino), un uomo semplice e un po' rude, appartenente agli operai che lavoravano all'ILVA. L'uomo vive in una masseria, caduta in disgrazia, e sogna insieme alla fidanzata di trasferirsi in città. Quando i capi dell'azienda decidono di fare di lui una spia, incaricata di individuare i lavoratori di cui è necessario liberarsi, Caterino diventa l'ombra dei suoi colleghi e prende parte agli scioperi soltanto per denunciarli. Quando anche lui chiede di essere trasferito alla Palazzina Laf, non sapendo bene quale degrado vi si nasconda, Caterino scoprirà che quello che credeva essere un paradiso è in realtà una machiavellica strategia per provare psicologicamente i lavoratori fino a spingerli a dimettersi o ad accettare il demansionamento. A sua spese scopre anche che da quell'inferno non c'è una via d'uscita.

PANORAMICA SU PALAZZINA LAF
Il film segna il debutto alla regia di Michele Riondino, attore di origini pugliesi noto per le sue diverse interpretazioni sul piccolo e sul grande schermo. La sceneggiatura del lungometraggio è stata lavorata dallo stesso regista congiuntamente al pluripremiato Maurizio Braucci, vincitore del David di Donatello con Gomorra (2008) e di un Orso d’argento al Festival di Berlino con La paranza dei bambini (2019). Il montaggio è stato affidato a Julien Panzarasa, noto per A bigger splash (2015) e Lo chiamavano Jeeg Robot (2015). La colonna sonora è curata dal compositore Teho Teardo, ma la canzone finale "La mia terra" è di Diodato, cantante di origini tarantine, proprio come il regista. Michele Riondino non si è limitato a co-sceneggiare e dirigere il film, si è anche calato nei panni del protagonista, l’operaio-spia Caterino Lamanna. Si tratta dunque della quarta pellicola in cui l’attore pugliese ed Elio Germano si trovano a collaborare dopo Il passato è una terra straniera (2008), Qualche nuvola (2011) e Il giovane favoloso (2014). Le riprese sono durate cinque settimane ed hanno avuto luogo fra Piombino e Taranto.
 

COMMENTO   Per la sua opera prima da regista Michele Riondino sceglie un tema - quello dell'ILVA di Taranto - che gli è vicino e gli sta a cuore, ma non per questo passione e coinvolgimento lo fanno sbandare pericolosamente. Aiutato da Maurizio Braucci in sceneggiatura, Riondino non mette mai le esigenze del tema prima di quelle del cinema, girando un film di impegno civile che, però, ha la voglia e il coraggio di usare commedia, grottesco e surreale per raccontare la sua storia drammatica.
A testimonianza dell'impegno e della concentrazione del regista e attore, una serie di dettagli capaci di fare la differenza, a partire dal nome del protagonista passando per indizi visivi sulla natura tossica della fabbrica, per finire sulla scelta dei volti. Il fantasma di Elio Petri non è stato evocato invano. (Federico Gironi - Comingsoon.it)
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Da Leonardo Da Vinci a Arthur Conan Doyle, da Charles Bukowski a Giorgio Armani, sull’importanza dei dettagli si sono espressi in tanti, nel corso della storia.
Paul Auster e Stephen King hanno detto qualcosa di molto molto simile, affermando che la verità è nei dettagli.
Dirlo qui significa voler sottolineare come in Palazzina LAF, suo esordio alla regia, Michele Riondino ha avuto l’intelligenza di stare attento anche alle piccole cose, ai particolari.
Uno su tutti, il nome del suo protagonista, Caterino Lamanna: un nome bellissimo, antico e grottesco al tempo stesso, capace di raccontare, da solo, tantissimo sulla persona che lo porta e le vicende di cui è protagonista.

Siamo nel 1997 - a dircelo ci sono le auto, i pandini come le Thema, ma anche Cloris Brosca alla televisione - e Caterino è un operaio dell’ILVA di Taranto. All’ombra dell’ILVA Caterino ha sempre vissuto, letteralmente.
Per Caterino non c’è altro mondo all’infuori dell’ILVA, del lavoro, della sua giovane fidanzata Anna. Di sogni piccolissimo borghesi, post-proletari, come lasciare la masseria diroccata che gli è casa per trasferirsi in città. Sposarsi, al limite, anche se la voglia non è tanta. Caterino se un operaio muore sul lavoro pensa che se uno non è capace, in acciaieria non ci deve andare. I sindacati sono qualcosa di lontanissimo dal suo orizzonte, nonostante il fermento che lo circonda. Caterino è l’uomo che fa al caso del suo quasi coetaneo Giancarlo Basile, colletto (quasi) bianco senza scrupoli, dirigente agro-rampante che lo inizia a usare come spia per capire che stanno preparando, quei maledetti sindacalisti, chi sia che fomenta il malcontento nell’azienda. Quel che riceve Caterino in cambio sono privilegi di piccolo cabotaggio: una pseudo-promozione con tanto di pandino aziendale prima, e poi il collocamento nella palazzina del titolo poi: uno spazio surreale, nel quale l’azienda spedisce i lavoratori che vorrebbero ricollocare ma che non accettano il demansionamento, e che sono condannati a una pena solo apparentemente paradisiaca: trascorrere lì l’orario di lavoro, senza avere niente di niente da fare.

Una cosa del genere l’abbiamo vista di recente nel documentario di Erik Gandini After Work: nel ricchissimo Kuwait della piena occupazione c’è gente pagata dallo stato per lavorare in enti e ministeri, ma che lì non ha una mansione. Il surreale della situazione era già evidente lì, e sempre lì s’intuiva la follia di chi quella situazione l’ha pensata, e quella più patologica ancora che rischia chi quella situazione la vive. Quello che Riondino racconta della palazzina LAF, nella sostanza, è vero. E la sua è una denuncia. Il suo è un cinema civile, dato che si premura anche, giustamente, di ricordare che luoghi come quello esistono ancora, a venti e più anni di distanza da quanto raccontato nel suo film. Eppure sbaglierebbe chi pensasse a Palazzina LAF, per temi e motivazioni, come a uno di quei tanti film dall’impegno rigoroso e un po’ plumbeo, improntati a un realismo grigio, documentaristico, dove la denuncia, il tema, fanno il film, che per il resto rimane spoglio e essenziale. Al contrario: quello di Riondino è un film mette il cinema prima di tutto, e che usa la commedia, e il grottesco, per raccontare la sua storia.

Nel programma della Festa del Cinema di Roma, dove Palazzina LAF è stato presentato in anteprima, per parlare del film sono stati evocati gli spettri dell’Elio Petri di La classe operaia va in Paradiso, e quelli del suo (ma non solo) Gian Maria Volonté. E farlo non è stata affatto una mossa unicamente promozionale e di incentivo al film. Il parallelo tra Lulù Massa e Caterino Lamanna è chiaro e evidente: solo che per Caterino ogni possibilità di presa di coscienza (di classe, ovviamente, ma non solo) è impossibile. Perché i tempi sono cambiati, e perché Caterino, facendo quello che fa, fa (pensa lui) il bene dell’azienda, l’unico che concepisce, e perché se finisce sul giornale in cronaca giudiziaria, lui, è contento perché è diventato famoso, e già si vede al Maurizio Costanzo Show. L’analisi politica e antropologica di Riondino mi pare non abbisogni di ulteriori spiegazioni da parte mia.

Se quel che Riondino racconta è giusto e importante, questo non diventa mai per lui un paravento dietro al quale nascondere mancanze, né l’alibi per tralasciare qualcosa che al cinema lo è altrettanto: un’idea di forma, di stile, di genere. Il modo in cui Riondino gioca col tono di Palazzina LAF, tenendo sempre in equilibrio la commedia e il dramma, il grottesco e il surreale, l’astrazione e la denuncia, è il punto di forza principale del film, e la ragione per cui ciò che gli sta evidentemente a cuore, ovvero il risvolto sociale e politico, riesce a funzionare così bene, senza risultare mai pesante o stucchevole per lo spettatore. Ancora un volta, il segreto sta nella cura per il dettaglio, che ovviamente non si esaurisce solo nel nome di Caterino Lamanna. La cura del dettaglio, in Palazzina LAF, la si vede nella scelta dei volti e degli attori, tanto per cominciare: anche per quelli che magari vediamo solo due volte, come nel caso di Paolo Pierobon, ma ovviamente anche in quelli che stanno spesso sullo schermo, da Michele Sinisi a Gianni D’Addario, da Vanessa Scalera a Marina Limosani. Ma la si vede in un vecchio impianto stereo che mangia le cassette, nel trucco e nel parrucco, nelle cose che vengono dette solo con gli sguardi, nei fiori piantati dentro vecchie scatole di latta. La si vede nel modo in cui Riondino, dimostrando anche un buon occhio per le inquadrature, racconta, da vicino e da lontano, la fabbrica e una città, le loro mille contraddizioni e l’eredità tossica con cui devono convivere, attraverso le immagini.

di Federico Gironi
Critico e giornalista cinematografico
Programmatore di festival