Lista visioni cinematografiche di Luciano


 
 Io Capitano (Io Capitano)

 
pic_movie_1699   NUM   1699  
  DATA E CINEMA   2023.09.08 KAPPADUE (CINEF 59-03)  
  RASSEGNA   CINEFORUM CHAPLIN  
 
     
  REGISTA   Matteo Garrone  
  ATTORI   Seydou Sarr, Moustapha Fall, Issaka Sawagodo, Hichem Yacoubi, Doodu Sagna, Khady Sy, Venus Gueye, Oumar Diaw, Joe Lassana, Mamadou Sani, Bamar Kane, Beatrice Gnonko  
  PRODUTTORE   Archimede con Rai Cinema, in coproduzione con Tarantula, con la partecipazione di Pathé  
  SCENEGGIATORE   Matteo Garrone, Massimo Gaudioso, Massimo Ceccherini, Andrea Tagliaferri  
  COMPOSITORE    
  PAESE   Italia, Belgio  
  CATEGORIA   Drammatico  
  ANNO   2023  
  DURATA   121 minuti  
  LINGUA    
  SOTTOTITOLI    
  URL   https://www.comingsoon.it/film/io-capitano/61844/scheda/  
 
 
 

DESCRIZIONE   Io Capitano, film diretto da Matteo Garrone, racconta la storia di due giovani Seydou e Moussa (Seydou Sarr e Moustapha Fall), che partono da Dakar, in Senegal, per affrontare un lungo viaggio per raggiungere l'Europa. La loro diventa un'odissea nel mondo contemporaneo, che li porta ad attraversare il deserto e le sue mille insidie, i pericoli del mare aperto e lo stesso essere umano, pieno di ambiguità e ipocrisia.
 

COMMENTO   Con Io Capitano Matteo Garrone racconta l'odissea dei migranti dal loro punto di vista e non dal nostro, e il suo film, che vede protagonisti due ragazzi del Senegal che vogliono raggiungere le coste italiane, è un racconto di formazione in cui il viaggio è anche un percorso interiore, che ricorda le disavventure di Pinocchio e strizza l'occhio al realismo magico. Ammassati su un barcone arrugginito, gli uomini e le donne che coltivano, forse ingenuamente, un sogno europeo, diventano non un amalgama indistinto, ma individui con una dignità, che poi è la dignità dei vinti, e una speranza che ti tiene in vita. (Carola Proto - Comingsoon.it)
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È difficile stabilire quale scena di Io Capitano porteremo a lungo nel cuore, quali immagini e parole continueranno a commuoverci quando il film avrà compiuto il suo giro: forse il barcone che di notte naviga silenzioso nelle acque scure del Mediterraneo, o anche l’immenso deserto del Sahara attraversato faticosamente da piccole figure indistinte. Di certo, per un regista/pittore che, come David Lynch, parte da una suggestione visiva, un'immagine può essere potente ed evocativa di per sé, senza che la si debba "sporcare" con il dialogo o accompagnare con una musica assordante. Basta contemplarla e poi lasciarsi travolgere, o anche solo cullare, approfittando della dimensione "dilatata" del viaggio, che, per quanto avventuroso, ha un suo ritmo e una sua alternanza di quiete e di tempesta, di azione e di reazione.

Per Matteo Garrone il senso di Io, Capitano sta proprio - sebbene non soltanto - nel viaggio: un viaggio che somiglia a quella strada che per Giorgio Gaber era l'unica salvezza. Di sicuro, per Seydou e Moussa è una salvezza a caro prezzo, costretti come sono a seguire un cammino irto di minacce umane e reso ancora più aspro da una natura ostile. Per percorrerlo sono necessarie gambe robuste e giovani, e ben allenate. Chi non le ha verrà lasciato indietro a morire, inghiottito dalla sabbia insieme alla speranza di un avvenire sereno.

Tornando alla domanda iniziale, sono tanti, in realtà, i momenti suggestivi del film di un regista che agli effetti speciali preferisce l'artigianalità e i paesaggi reali. E, a proposito di realtà (e realismo), guai a scambiare Io Capitano per un ibrido, nella fattispecie un film per metà documentario e per metà di finzione. E infatti, se a un primo sguardo i personaggi sembrano poco caratterizzati, poi acquistano significato e materia, e succede perché il loro obbligato "passaggio per l’inferno" è la metafora di un'evoluzione interiore che si risolve prima nella perdita dell’innocenza e poi nella consapevolezza che diventare adulti vuol dire avvertire un senso di responsabilità e accudire, più che essere accuditi.

In questo senso, Io Capitano è a tutti gli effetti un romanzo di formazione, e Seydou e Moussa, a pensarci bene, sono un po’ come Pinocchio, che abbandona chi lo ha messo al mondo e, ascoltando cattivi consigli, si fa rubare i pochi zecchini d'oro che ha in tasca. E se ai loro occhi l'Europa appare come un paese dei balocchi, c'è senz’altro un uomo che fa le veci di un genitore salvifico e affettuoso, e che quindi ricorda la Fata Turchina. Non manca neppure il pescecane, che ovviamente è il barcone sporco e arrugginito che parte da Tripoli e punta verso la Sicilia. Nella sua pancia di ferro, però, non c'è Geppetto, perché mentre Pinocchio alla fine si trasforma in un bambino vero, Seydou deve diventare un uomo, ed è normale che, prima che questo accada, i cattivi gli appaiano come dei mostri e la fatica fisica come il prezzo da pagare per tuffarsi in un'avventura degna del più prodigioso esploratore.

Forse in Io, Capitano c'è poco di nuovo e inedito sui sacrifici che un migrante è costretto a fare per abbandonare la terra che gli ha dato i natali e raggiungere il vecchio continente, ma Garrone non parla soltanto a chi sa e ha letto e ha visto, ma anche, anzi soprattutto, a chi non sa o non immagina neanche lontanamente che in Africa le fughe clandestine hanno portato alla nascita di un vero e proprio business, un piatto in cui c’è da mangiare per tutti: banditi, interpreti, autisti, fornitori di passaporti falsi, scafisti, militari. Sono loro i cattivi del film? Se Seydou è Pinocchio, allora questi loschi figuri potrebbero essere i dottori di cui il burattino ha terrore, ma siccome il film racconta pur sempre storie vere, le ben note orecchie da ciuchino con cui una mattina si svegliano Lucignolo e Pinocchio diventano, per i due giovani protagonisti, ematomi, occhi neri e ferite da arma da fuoco, e bisogna sbrigarsi a raggiungere la Terra Promessa, se si vogliono evitare l'amputazione o la morte per setticemia.

Non è casuale che Io Capitano dedichi ampio spazio alla quotidianità di Seydou e di Moussa nel loro paese di origine, e cioè il Senegal. È questa la parte più bella ed emozionante del film, che ci mostra un paese povero ma che non perde quasi mai il sorriso, un luogo accogliente nel quale i nostri due sedicenni scrivono canzoni, indossano orgogliosamente la maglia del Barcellona dei tempi d'oro e ai piedi hanno sneakers che sono una perfetta imitazione di un modello di Nike particolarmente in voga. E attenzione: è questa lunga introduzione che ci restituisce non personaggi ma persone, evitando così, nella successiva ora e mezza di film, di far apparire l'intero contingente di migranti come una massa indistinta e anonima, come bestie da soma senza intelletto o, peggio ancora, come dei selvaggi con il gonnellino di paglia. I due ragazzi di Dakar e i loro compagni di traversata sono invece un insieme di individui a cui bisogna riconoscere la dignità di uomini, o anche la dignità dei vinti. E i vinti hanno desideri e speranze come chiunque altro, solo che sono più sfortunati. Per questo è importante per Seydou che nessuno muoia durante il viaggio, e lo è anche per Matteo Garrone, che fa un'altra scelta molto giusta: evitare ciò che tanti film sull'immigrazione ci hanno mostrato, e quindi i primi soccorsi, il soggiorno nei centri di accoglienza e così via.

Non c'è il desiderio di distinguersi dagli altri registi a monte di questa decisione, ma solo un bisogno profondo di non rovinare il sogno europeo di Seydou e Moussa. Garrone, seppur consapevolmente, preferisce restare con l’illusione che quella disgraziata brigata, che ha rischiato la vita per arrivare sulle nostre coste, avrà effettivamente un'esistenza migliore e troverà un lavoro e una casa, e forse metterà su famiglia. In fondo non è così che finiscono le fiabe, che per Garrone sono tra le forme di narrazione più belle di sempre? Io, Capitano, tuttavia raccoglie e mescola storie realmente accadute, e le poche incursioni nel realismo magico, che siano sogni o miraggi, confermano la grande capacità affabulatoria di un regista che non perde mai la pietas nei confronti dei suoi personaggi: fallibili come gli esseri umani e archetipici come gli eroi e gli antieroi dei poemi omerici.

Chi arriva stremato nei nostri porti, sembra dirci infine il film, ha già combattuto e vinto una battaglia, e spesso è sopravvissuto per miracolo. Ha già le sue cicatrici, insomma, e può resistere solo se non gli viene tolta la possibilità di fantasticare, perché l'uomo che non ha più una ragione o un ideale per cui combattere, è un uomo smarrito, sconfitto e morto dentro.

di Carola Proto
Giornalista specializzata in interviste
Appassionata di cinema italiano e commedie sentimentali